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Lug

Inquinamento ambientale: la denuncia di cittadine e cittadini

Negli ultimi anni in Italia, è mancato un anello di congiunzione tra problematiche ambientali, dovute all’attività produttiva, e messa in opera sul territorio nazionale. Probabilmente anche a causa dell’aumento delle norme, questa funzione è stata assunta da soggetti istituzionali, amministrazioni regionali e comunali, che nel tempo, anche a causa delle sempre più ridotte capacità di intervento, delle sovrapposizioni di competenze con altri enti e degli eccessivi pericoli nelle procedure giuridiche, hanno preferito interpretare questo ruolo solo a livello formale.

Si sta dunque assistendo a una rinascita piuttosto consistente dell’auto-organizzazione dei cittadini e delle cittadine.
A fare il punto, tra i tanti giornalisti e osservatori, è Linda Maggiori, scrittrice, giornalista e attivista ambientale, che ha raccolto le testimonianze in Mamme ribelli. Le mille battaglie da nord a sud contro l’inquinamento e per la salute di tutti!, un libro che dà voce alle storie di donne che da anni fanno parte della rete “Mamme da Nord a Sud”, composta da comitati che in Italia lottano per contrastare le devastazioni dei territori e le grandi opere inquinanti, ma anche per rivendicare il diritto alla salute.

La rete, nata nel 2019, si è costituita per denunciare con un’unica voce gli scempi ambientali che affliggono l’Italia: le lotte portate avanti riguardano la difesa dell’acqua come bene comune, la denuncia della presenza di pesticidi e PFAS nelle falde acquifere, l’esistenza di siti contaminati, l’aria irrespirabile delle città e altro ancora. Il loro obiettivo è lasciare un Paese migliore alle generazioni future.

Leggendo le pagine del volume è possibile conoscere le esperienze delle “Mamme No PFAS” del vicentino, della “Mamme Volanti” di Brescia, delle donne di Taranto (Ilva), delle “Mamme Antismog” nella Pianura Padana, e delle mamme di Venafro, in provincia di Frosinone.

Un capitolo poi è dedicato alla Valle del Sacco e a “Le donne di Colleferro contro le fabbriche di veleni e di armi” con il contributo dell’attiva locale Ina Camilli, che spiega come l’inquinamento della valle, dell’aria, del suolo e delle acque scoperto nel 2005 abbia distrutto la fonte economica primaria del territorio. Come precisa Camilli, “dopo sentenze, processi, rinvii, prescrizioni e assoluzioni per i responsabili del disastro ambientale, la politica non ha bonificato la valle e il fiume di Sacco continua a ricevere sversamenti illegali, ma loro non vogliono fermarsi finché non sarà effettuata la bonifica, sperando «in un risanamento che forse vedrà chi verrà dopo di noi”.

Un nuovo studio recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Health ha rivelato l’impatto devastante della contaminazione da sostanze per-fluoroalchiliche e poli-fluoroalchiliche (PFAS) sulla mortalità della popolazione che risiede nei comuni veneti più colpiti.​

Nel 2013 in Veneto è stata scoperta una vasta contaminazione delle acque che ha interessato maggiormente i 30 comuni della cosiddetta ‘Area Rossa’, nelle province di Vicenza, Padova e Verona, dove le PFAS sono state rilevate in concentrazioni preoccupanti nelle acque superficiali, sotterranee e potabili, avvelenando circa 350.000 persone.

La ricerca, condotta dal prof. Annibale Biggeri assieme al gruppo dell’Università di Padova, in collaborazione con ricercatori dell’Istituto Tumori della Romagna, il Servizio Statistico dell’Istituto Superiore di Sanità e con il contributo di Citizen science del gruppo Mamme NO PFAS, ha evidenziato un aumento della mortalità. Per l’esattezza, dal 1985 al 2018, si è registrato un eccesso di oltre 3800 morti rispetto all’atteso, una morte in più ogni 3 giorni. Per dare un’idea più concreta, è come se in questi 34 anni fosse scomparsa la popolazione totale di due comuni dell’Area Rossa: Orgiano, 3000 abitanti, ed Asigliano, 800 abitanti. In particolare, per la prima volta, è stata dimostrata un’associazione causale tra l’esposizione alle PFAS e un rischio elevato di morte per malattie cardiovascolari.

Tramite l’analisi delle diverse classi d’età, lo studio ha evidenziato un aumento del rischio di insorgenza di malattie tumorali al diminuire dell’età. La popolazione più giovane, esposta ai PFAS già durante l’infanzia, è quella che paga il prezzo più alto.

Sorprendentemente, si è anche osservato un effetto protettivo nelle donne in età fertile. Questo fenomeno potrebbe essere attribuito al trasferimento, già ampiamente documentato in letteratura scientifica, delle PFAS dal sangue materno al feto durante la gravidanza e l’allattamento, e alla conseguente diminuzione di livelli di PFAS nelle madri.

Queste drammatiche evidenze scientifiche sottolineano che non esistono più scuse per ritardare ulteriormente l’avvio dello Studio di Coorte, deliberato dalla Regione del Veneto già nel 2016, ma mai iniziato.

Il Piano di Sorveglianza Sanitaria non basta, dicono le madri anti-PFAS, perché ha metodi e obiettivi diversi. “In particolare, lo Studio di Coorte è fondamentale in questo contesto per diverse ragioni, tra cui l’analisi a lungo termine, l’identificazione dei fattori di rischio, il delineamento di informazioni per le politiche di salute pubblica. Pertanto, nonostante il Piano di Sorveglianza Sanitaria fornisca informazioni preziose sulla salute della popolazione esposta – puntualizzano – lo Studio di Coorte è un complemento indispensabile per comprendere a fondo l’impatto della contaminazione da PFAS sulla salute umana”.
Intanto, il fenomeno dell’inquinamento da PFAS si va estendendo anche in altre regioni come il Piemonte, la Toscana e la Lombardia. In particolare, è emerso che, in due pozzi della Lombardia, sono presenti PFAS oltre 100 nanogrammi per litro, il limite fissato dalla direttiva europea, che entrerà in vigore nel 2026. È anche per tentare di arginare questa emergenza che investe più territori che è partita all’indirizzo dei sindaci interessati la richiesta di firmare una petizione che spinga il Parlamento italiano a mettere al bando l’uso di queste sostanze.