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Giu

Due sentenze della Corte di Cassazione su mobbing e sofferenze psichiche nei luoghi di lavoro

Il datore di lavoro è responsabile per i danni alla salute causati al dipendente da un ambiente lavorativo troppo stressante, anche in assenza di atti qualificabili come mobbing. In sintesi, è il contenuto di due recenti sentenze della Corte di cassazione Civile, Sezione lavoro, la 2084 e la 3791.

La 2084 riguarda la richiesta risarcitoria avanzata da un lavoratore nei confronti del datore di lavoro, diretta ad ottenere un ristoro a causa delle sofferenze psichiche patite in ufficio. La domanda risarcitoria era stata accolta in primo grado ma respinta in appello. La Corte territoriale aveva rigettato la pretesa non avendo riscontrato l’intento persecutorio che rappresenta un elemento costitutivo del mobbing. Da qui il ricorso in Cassazione da parte del dipendente.
Nell’esaminare il caso in oggetto, la Suprema Corte ha innanzitutto evidenziato la sussistenza dell’obbligo del datore di lavoro di astenersi da adottare scelte o comportamenti lesivi, già di per sé, della personalità morale del lavoratore, come l’applicazione di condizioni di lavoro stressogene, oltre a tenere comportamenti più gravi come mobbing, straining, burn out, molestie, stalking.
Secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori legati al contratto e alla responsabilità che ne deriva, la Corte di Cassazione ha inteso configurare la responsabilità del datore di lavoro anche nel caso di un mero inadempimento che rientri in nesso causale con un danno alla salute del dipendente.
Secondo la Cassazione, quindi, la Corte territoriale avrebbe dovuto valutare, anche in assenza di un intento persecutorio, le varie condotte caso per caso, alla luce della violazione dell’art. 2087 cod. civ. ovvero: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Va infatti specificato che tale circostanza era stata esclusa nella sentenza impugnata, in ragione dell’accertata insussistenza di un comportamento programmaticamente e volontariamente vessatorio.

Nella sentenza 3791 la Corte si è espressa su una lavoratrice che aveva citato in giudizio il Ministero dell’Istruzione, affermando di aver subito per lungo tempo comportamenti mobbizzanti da parte di un collega.
Le corti di I e II grado di giustizia avevano rigettato la sua richiesta poiché non era stata provata la presenza di mobbing. Invece, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto che nelle sentenze fosse stato erroneamente ignorato l’obbligo, da parte del datore di lavoro, di verificare e prevenire il verificarsi di situazioni di stress nocivo nell’ambiente di lavoro, in linea con quanto previsto dall’articolo 2087 del Codice Civile.
Inoltre, nella sentenza si sottolinea l’importanza di valutare il rischio stress lavoro correlato nel contesto della valutazione dei rischi aziendali, come previsto dal Testo Unico sulla sicurezza che ricomprende questo obbligo nella redazione nel documento di valutazione rischi.